Faccio un esempio concreto: il bimbo ha l’istinto di succhiare il latte. Sente il tepore del seno materno come un primo elemento di felicità e qualità di vita. Muovendo qualcosa che non sa bene di avere, come il braccio destro, casualmente lo tocca. Quindi teorizza: quando muovo quella cosa, sento caldo, è bello. Un altro giorno, messo dalla madre in una posizione diversa, muovendo casualmente il braccio sinistro, tocca ancora il seno. Ed ecco la sua nuova teoria: se muovo qualcosa da quel lato, sento caldo, se faccio lo stesso dall’altro, sento caldo, quindi è due volte bello. Questo processo di acquisizione della conoscenza è sempre basato sul medesimo uno-due, uno-due (cioè prassi-teoria, prassi-teoria corretta), in costante evoluzione. La stessa strada che, milioni di anni fa, ha seguito l’umanità per scendere dagli alberi.
Io ravviso lo stesso atteggiamento in quegli adulti che, conservando la pulsione dell’uno-due, come i bravi scienziati o gli artisti, sono tra i pochissimi che riescono a rimanere bambini per tutta l’esistenza. E al 99 per cento degli altri esseri umani, cosa succede? Che si adeguano a ciò che i loro genitori – e parlo solo di quelli appassionati, convinti di far bene – e poi la scuola hanno inculcato loro in zucca: nozioni vecchie, sbagliate o anacronistiche, facendole passare per definitive e immutabili, da rispettare a priori. Se spesso mi arrabbio con l’insegnamento nel suo complesso, è perché penso che condiziona a non essere autonomi, a essere passivi. Il nocciolo di ogni conoscenza, per me, sta in quel cruciale, cronico uno-due.